giovedì 30 gennaio 2014

La caduta

Non cadevo così bene da anni. Inciampare, poggiare male il piede, fluttuare nel vuoto per un nanosecondo e spalmarsi al suolo. Capita a tutti, no? A me di più. E tendo a dare un significato particolare a ognuno di questi ruzzoloni, come se il karma stesse cercando di insegnarmi qualcosa. Per questo le cadute che ricordo con più coinvolgimento sono essenzialmente tre. 

La prima risale all'infanzia, avrò avuto quattro anni. C'era una corrispondenza quasi matematica tra i "non correre, che cadi!" di mia madre e i miei capitomboli. Appena iniziavo a correre, cadevo. Ero più scema degli altri? Ero meno atletica? Forse. Sicuramente avevo un difetto all'arco plantare che mi faceva poggiare male i piedi, solo che nessuno se n'era accorto. Ero caduta appena una settimana prima, avevo le croste sulle ginocchia. Ci sono caduta sopra. Le croste si sono spezzate e i cocci appuntiti mi sono entrati nella carne. Non dimenticherò mai la sensazione di tristezza, più forte del dolore, che mi prese in quel momento. 
In quell'occasione ho imparato che gli adulti hanno sempre ragione e che bisogna ubbidire. 

Un'altra volta sono caduta nel cortile di un castello, durante una gita alle medie. Stavo starnazzando per farmi notare dal ragazzetto che mi piaceva allora. Inutile dire che il poverino cercava sempre di evitarmi come la peste. Una caduta plateale, in grande stile. L'hanno visto tutti. Hanno riso tutti, o almeno le vampate di calore e di vergogna che esplodevano sul mio viso suggerivano questo. In quell'occasione ho imparato che fare la splendida non faceva per me e che l'unico modo per strappare i jeans in maniera credibile e ottenere un effetto figo era atterrarci sopra con l'aiuto della gravità, della pietra e della frizione. 

Qualche anno dopo invece cadevo nel cortile del liceo, all'uscita. Pioveva forte e sparsi per terra c'erano dei grandi sacchi neri con dentro raccolta la cenere dell'Etna. Stavo seguendo un mio compagno per ripararmi sotto al suo ombrello. Non so esattamente come sia andata, ma mi sono ritrovata con i jeans strappati, le ginocchia sbucciate e metà gamba infilata in un sacco nero pieno di cenere. In quell'occasione ho imparato che bisogna portarsi il proprio ombrello da casa. 

L'ultima caduta risale ad alcune settimane fa. A ventisei anni non pensi più a cose come l'imbarazzo, quando cadi. A ventisei anni pensi solo che non vorresti mai cadere, che rialzarsi è faticoso e che per guarire ci vuole molto tempo. 
Ero per strada, reduce da un test di ammissione per uno stage retribuito la bellezza di 200€ al mese (a quanto pare il massimo cui si possa aspirare oggi). Avevo inoltrato la candidatura quasi per curiosità e quando in risposta si era parlato di "test e selezione di gruppo" non avrei mai pensato di trovarmi poi seduta in un banchetto, con un'altra dozzina di giovincelli, a fare un compito in classe per dimostrare di sapere già quello che in teoria si dovrebbe insegnare nel corso di uno stage formativo. Quando mi sono trovata a dover scrivere su un foglio di carta in linguaggio html ho seriamente creduto che sarebbe stato quello l'apice di una giornata di merda. Un po' perché il linguaggio html non lo conosco ancora, un po' perché - dai, non fatemi spiegare il perché. 

Dopo aver lasciato in bianco metà delle domande e dopo essermi sforzata per trattenermi dal bestemmiare in ogni lingua (finanche attraverso il linguaggio dei segni), sono andata via rimuginando su quanto siano assurde certe dinamiche d'inserimento nel mondo del lavoro e quanto sia strana la vita in generale. Mi ero addirittura vestita bene, pensando di dover fare un colloquio, di dover parlare con qualcuno. E insomma, avevo messo la camicia, la gonna, i collant NUOVI, senza un buco nemmeno nelle parti nascoste, le scarpe un po' alte ricevute in regalo per le occasioni importanti. Cazzo se fanno male, le scarpe un po' alte. Ma giusto per oltrepassare il metro e cinquanta di altezza, per slanciare la gamba, per sembrare più professionale, il dolore è sopportabile. Certo che a volte sono proprio cretina. Ero di fretta, ero arrabbiata con me stessa e con gli altri, stavo concependo pensieri di morte e distruzione. Non ho idea di cosa sia successo e perché, ho solo visto la mia scarpa destra roteare velocemente verso l'alto mentre il mio corpo precipitava altrettanto rapidamente verso il basso, il tutto quasi a rallentatore ma senza la minima possibilità di salvare le mie ginocchia o i miei collant.

Quando si cade in pubblico intervengono alcune figure tipiche, delle particolari comparse ingaggiate unicamente per ricoprire un ruolo standard: guardarti cadere, mettersi a ridere e chiedere se ti sei fatto male. C'erano tutte quella mattina, ma l'ultima delle tre era evidentemente permeata dello spirito tipico della metropoli che sempre corre e mai si ferma, e ha improvvisato chiedendomi:

«Si è fatta male signorina?»
«Eh, sì» ho risposto io, resa momentaneamente incapace di mentire da un dolore lancinante al ginocchio destro.
«Beh comunque l'importante è che stia bene, perché sono di fretta, devo andare...»
Vabbè. 

In quell'occasione ho imparato tante cose, perché mentre cadevo ho avuto una specie di epifania: nella mia vita lavorativa, tra alti e bassi ma soprattutto tra periodi di vuoto assoluto, di esclusione dalle selezioni di ogni genere, di tentativi di miglioramento non riusciti, nulla sta andando come vorrei. Quella caduta non è solo esterna a me, è l'incarnazione metaforica della mia condizione attuale. Sto cadendo, inesorabilmente. Sono a terra un attimo dopo. Ed è un po' colpa del contesto, del paese in cui viviamo, del periodo storico, tutto quello che volete. Però è un po' anche colpa mia, che non ho messo le scarpe giuste, che ho camminato dove si scivola, che ho avuto troppa fretta, che non ho saputo muovermi con armonia in mezzo alle cose difficili. 

Mettere in piedi il corpo e continuare a camminare è stato facile. Me la sono cavata con una sbucciatura, un livido e un paio di collant (nuovi) rotti. Nel frattempo però la mente si sta ancora chiedendo come ci si rialzi e quanto possa essere stato stupido pensare che con un paio di scarpe scomode la vita potesse essere più facile. 

http://poorlydrawnlines.com/comic/achieve/

2 commenti:

  1. Sono capitato qui per caso dopo anni e non avevo mai letto questo post, ma visto che ne fai uno all'anno può capitare, credo. È un bel post.

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  2. per curiosità di che colore erano i collant?

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