martedì 17 maggio 2016

Enter the void

sadness.img
hyperboleandahalf.blogspot.it


Ed eccomi nuovamente qui, una quantità indefinita di chili più grassa e quasi tre anni più vecchia, a mettere mano a un blog negletto, obsoleto e inutile nel tentativo di ricordare quale sia il modo giusto di pigiare le dita sulla tastiera per farne scaturire qualcosa di interessante. 

Nulla.

In queste due righe pregne di silenzio hanno preso corpo una quantità di ricordi, per lo più spiacevoli, delle cose avvenute e fatte nel lasso di tempo che intercorre dall'ultimo post pubblicato qui nel 2014, di quando cioè sono caduta, a questo esatto momento. dopo aver realizzato di non essere riuscita ad alzarmi granché bene. Non starò a dirvi che ho fatto TANTISSIME COSE e visto migliaia di volti e girato il mondo perché non è così, anzi è dannatamente il contrario.

L'ultima volta che ho scritto mi trovavo in un periodo buio e mesto e vuoto e si sa, nel vuoto si annidano i mali peggiori, guai a lasciare spazio vacante nella mente e nel cuore perché verrebbe subito occupato da quanto di peggio si possa pensare e provare. A questo periodo buio e mesto e vuoto è seguito un periodo strano, frustrante ma a suo modo pieno e si sa, il riempimento non è altro che un vano tentativo di saziare la fame rabbiosa dell'abisso con temporanei sacrifici. E a quel periodo strano, frustante ma pieno è succeduto un periodo ancora più buio, più mesto e più vuoto e così via, e quella ruota scassata di un carretto privo di direzione che è la mia vita è andata avanti fino a oggi in un eterno ritorno di cose, parole, delusioni e sofferenze inflitte a me e agli altri e con un continuo taglia e cuci in cui io sono stata il filo indisciplinato che scappa dalla cruna e passa con irregolarità da un lato all'altro per tenere insieme in maniera maldestra tante pezzuole sgualcite a formare un curioso patchwork dalla forma indefinita, ovvero i tanti casini che combino.

In tutto questo ci sono andate di mezzo tante cose, anche la mia permanenza nel cuore pulsante dell'Italia che lavora e produce; le pochissime certezze accumulate faticosamente nel corso del tempo su "come va il mondo" sono tutte andate a sparire da qualche parte, forse in quello stesso abisso ingordo di ricordi e cose che tanto apprezza i sacrifici.
Tornare nella mia città è stato difficile, è stato triste, è stato faticoso, ma soprattutto è stato strano. Ogni cosa era al suo posto ma sembrava diversa. Le piazze, i locali, la cameretta a casa dei miei, ogni singolo punto di riferimento che fino a pochi anni fa ero abituata a vedere e ritrovare, era tutto ancora lì, ma non sembrava lo stesso. Come se qualcuno ne avesse fatto una copia identica, ma più sbiadita e totalmente priva di tutti i ricordi assorbiti nel tempo, per poi metterla lì, come se nulla fosse.
Ogni tanto mi sento proprio come questi oggetti rimessi a posto ma privi di una parte fondamentale di sé, lasciata indietro chissà dove.

Ma le persone non sono oggetti e vengono in qualche modo costrette a scegliere la vita, scegliere un lavoro, una carriera eccetera (troppo facile giocarsela con Trainspotting, lo so che non sono più gli anni Novanta) o forse è quello che normalmente si fa in alternativa al sentirsi costantemente assillati da dubbi e interrogativi su quale sia il proprio posto nel mondo e su cosa si debba fare, e programmare, e trovare soluzioni a problemi dalla natura ignota, e avere la sensazione di aver sbagliato OGNI-SINGOLA-COSA a partire dall'asilo nido sino a questo preciso istante in cui ho premuto il tasto per pubblicare queste frasi sconnesse senza nemmeno arrivare al punto, ossia la trascrizione approssimativa di pensieri ansiogeni e paranoici relativi alla totale assenza di un punto di riferimento o centro gravitazionale a partire dal quale costruire qualcosa e riempire quel vuoto prima che lui riempia me.





giovedì 30 gennaio 2014

La caduta

Non cadevo così bene da anni. Inciampare, poggiare male il piede, fluttuare nel vuoto per un nanosecondo e spalmarsi al suolo. Capita a tutti, no? A me di più. E tendo a dare un significato particolare a ognuno di questi ruzzoloni, come se il karma stesse cercando di insegnarmi qualcosa. Per questo le cadute che ricordo con più coinvolgimento sono essenzialmente tre. 

La prima risale all'infanzia, avrò avuto quattro anni. C'era una corrispondenza quasi matematica tra i "non correre, che cadi!" di mia madre e i miei capitomboli. Appena iniziavo a correre, cadevo. Ero più scema degli altri? Ero meno atletica? Forse. Sicuramente avevo un difetto all'arco plantare che mi faceva poggiare male i piedi, solo che nessuno se n'era accorto. Ero caduta appena una settimana prima, avevo le croste sulle ginocchia. Ci sono caduta sopra. Le croste si sono spezzate e i cocci appuntiti mi sono entrati nella carne. Non dimenticherò mai la sensazione di tristezza, più forte del dolore, che mi prese in quel momento. 
In quell'occasione ho imparato che gli adulti hanno sempre ragione e che bisogna ubbidire. 

Un'altra volta sono caduta nel cortile di un castello, durante una gita alle medie. Stavo starnazzando per farmi notare dal ragazzetto che mi piaceva allora. Inutile dire che il poverino cercava sempre di evitarmi come la peste. Una caduta plateale, in grande stile. L'hanno visto tutti. Hanno riso tutti, o almeno le vampate di calore e di vergogna che esplodevano sul mio viso suggerivano questo. In quell'occasione ho imparato che fare la splendida non faceva per me e che l'unico modo per strappare i jeans in maniera credibile e ottenere un effetto figo era atterrarci sopra con l'aiuto della gravità, della pietra e della frizione. 

Qualche anno dopo invece cadevo nel cortile del liceo, all'uscita. Pioveva forte e sparsi per terra c'erano dei grandi sacchi neri con dentro raccolta la cenere dell'Etna. Stavo seguendo un mio compagno per ripararmi sotto al suo ombrello. Non so esattamente come sia andata, ma mi sono ritrovata con i jeans strappati, le ginocchia sbucciate e metà gamba infilata in un sacco nero pieno di cenere. In quell'occasione ho imparato che bisogna portarsi il proprio ombrello da casa. 

L'ultima caduta risale ad alcune settimane fa. A ventisei anni non pensi più a cose come l'imbarazzo, quando cadi. A ventisei anni pensi solo che non vorresti mai cadere, che rialzarsi è faticoso e che per guarire ci vuole molto tempo. 
Ero per strada, reduce da un test di ammissione per uno stage retribuito la bellezza di 200€ al mese (a quanto pare il massimo cui si possa aspirare oggi). Avevo inoltrato la candidatura quasi per curiosità e quando in risposta si era parlato di "test e selezione di gruppo" non avrei mai pensato di trovarmi poi seduta in un banchetto, con un'altra dozzina di giovincelli, a fare un compito in classe per dimostrare di sapere già quello che in teoria si dovrebbe insegnare nel corso di uno stage formativo. Quando mi sono trovata a dover scrivere su un foglio di carta in linguaggio html ho seriamente creduto che sarebbe stato quello l'apice di una giornata di merda. Un po' perché il linguaggio html non lo conosco ancora, un po' perché - dai, non fatemi spiegare il perché. 

Dopo aver lasciato in bianco metà delle domande e dopo essermi sforzata per trattenermi dal bestemmiare in ogni lingua (finanche attraverso il linguaggio dei segni), sono andata via rimuginando su quanto siano assurde certe dinamiche d'inserimento nel mondo del lavoro e quanto sia strana la vita in generale. Mi ero addirittura vestita bene, pensando di dover fare un colloquio, di dover parlare con qualcuno. E insomma, avevo messo la camicia, la gonna, i collant NUOVI, senza un buco nemmeno nelle parti nascoste, le scarpe un po' alte ricevute in regalo per le occasioni importanti. Cazzo se fanno male, le scarpe un po' alte. Ma giusto per oltrepassare il metro e cinquanta di altezza, per slanciare la gamba, per sembrare più professionale, il dolore è sopportabile. Certo che a volte sono proprio cretina. Ero di fretta, ero arrabbiata con me stessa e con gli altri, stavo concependo pensieri di morte e distruzione. Non ho idea di cosa sia successo e perché, ho solo visto la mia scarpa destra roteare velocemente verso l'alto mentre il mio corpo precipitava altrettanto rapidamente verso il basso, il tutto quasi a rallentatore ma senza la minima possibilità di salvare le mie ginocchia o i miei collant.

Quando si cade in pubblico intervengono alcune figure tipiche, delle particolari comparse ingaggiate unicamente per ricoprire un ruolo standard: guardarti cadere, mettersi a ridere e chiedere se ti sei fatto male. C'erano tutte quella mattina, ma l'ultima delle tre era evidentemente permeata dello spirito tipico della metropoli che sempre corre e mai si ferma, e ha improvvisato chiedendomi:

«Si è fatta male signorina?»
«Eh, sì» ho risposto io, resa momentaneamente incapace di mentire da un dolore lancinante al ginocchio destro.
«Beh comunque l'importante è che stia bene, perché sono di fretta, devo andare...»
Vabbè. 

In quell'occasione ho imparato tante cose, perché mentre cadevo ho avuto una specie di epifania: nella mia vita lavorativa, tra alti e bassi ma soprattutto tra periodi di vuoto assoluto, di esclusione dalle selezioni di ogni genere, di tentativi di miglioramento non riusciti, nulla sta andando come vorrei. Quella caduta non è solo esterna a me, è l'incarnazione metaforica della mia condizione attuale. Sto cadendo, inesorabilmente. Sono a terra un attimo dopo. Ed è un po' colpa del contesto, del paese in cui viviamo, del periodo storico, tutto quello che volete. Però è un po' anche colpa mia, che non ho messo le scarpe giuste, che ho camminato dove si scivola, che ho avuto troppa fretta, che non ho saputo muovermi con armonia in mezzo alle cose difficili. 

Mettere in piedi il corpo e continuare a camminare è stato facile. Me la sono cavata con una sbucciatura, un livido e un paio di collant (nuovi) rotti. Nel frattempo però la mente si sta ancora chiedendo come ci si rialzi e quanto possa essere stato stupido pensare che con un paio di scarpe scomode la vita potesse essere più facile. 

http://poorlydrawnlines.com/comic/achieve/

mercoledì 9 gennaio 2013

Le parole sono importanti. Forse.




Salve a tutti, buon anno e via discorrendo. Scrivo questo post di getto perché nel giro di un paio di ore ho beccato due annunci lavorativi assolutamente deliranti. Non tanto per la proposta lavorativa in sé, ma per il modo in cui sono scritti. Qualcuno ha già parlato di quello che ho interpretato come "blocco dello scrittore" (a proposito, seguite anche quel blog: è scritto da una ragazza bella e brava, davvero - oh oh oh quanto so' simpatica) : si tratta di un fenomeno particolare che provoca l'inceppamento delle capacità logico-cognitive basilari nell'eventualità della compilazione di un annuncio lavorativo. Sfondoni, errori di ogni foggia e qualità, sprazzi di delirio d'onnipotenza, frasi prive di significato compiuto (anche leggendole al contrario), insomma, il puro nonsense.

Oggi mi sono imbattuta quindi in due annunci lavorativi prodotti, evidentemente, da uno scrittore bloccato.
Ve li sottopongo, perché il mondo ha bisogno di sapere.

Graziosamente tratto da qui.

E va be', sono evidentemente dei morti di fame, è stato tradotto dal Tamil col traduttore di Google, l'inserzionista era ubriaco, tutto quello che volete. Grasse risate, però.

Poi ho visto l'altro annuncio. Pubblicato, in maniera abbastanza ufficiale, su un utilissimo (social) network professionale che tutti noi usiamo per una non meglio specificata ragione. Delirante, sebbene scritto - almeno questo, per fortuna - in italiano. Insomma, non sembra uno scherzone, è tutto vero (salvo smentite da parte dei signori con la mela che fa tendenza).
E allora, ecco a voi:

Fortunosamente reperito qui.



Ora, dato che sono un po' ignorante, mi sono limitata a dire "Ma che minchia significa esperienza trasformazionale?". Ho cercato su Google per chiarirmi le idee e sarebbe stato meglio non farlo. Avete presente quelle parole usate per fare figo, sulla stessa lunghezza d'onda dei termini inglesi utilizzati in maniera assolutamente gratuita soprattutto da chi l'inglese non lo sa? Ecco, una cosa del genere. E non posso fare altro che chiedermi una cosa, una sola. Quelli che hanno risposto all'annuncio, che faccia hanno fatto quando hanno letto dell'"esperienza trasformazionale"? (Io ho fatto quella lassù, per esempio). Ma soprattutto, sono pronti ad unirsi alla retail revolution?

lunedì 10 dicembre 2012

Lettera ad un curriculum sbagliato

Piccola, doverosa premessa: sono una persona un po' dispersiva. Sono una che cento ne pensa e mezza ne fa (ma giuro, voglio smettere). Quindi, ho voluto tenere in vita questo blog pur non postando più, con l'idea di dedicarmi ad un progetto "gemello", ossia il mio blog su Ctzen "Le faremo sapere". Risultato: non ho più scritto né qui e né lì. E ciò non va bene. Quindi ho pensato di fare così: userò il caro vecchio caustico B-lowjob in maniera più "personale", scrivendo soprattutto di esperienze mie, di riflessioni sui temi caldi legati al mondo del lavoro come dei brevi editoriali di cui nessuno sentiva il bisogno, aggiungendo di tanto in tanto qualche gag per non rendere il tutto troppo noioso. Sull'altro blog proverò a scrivere cose ugualmente interessanti ma diverse - perché duplicare i contenuti non si può né avrebbe senso. Continuerò ovviamente ad indirizzare i miei strali, le mie maledizioni voodoo ed i miei anatemi contro i fautori di annunci di lavoro indecenti, sia qui, che lì, che su facebook, che nella vita, insomma ovunque. Potessi, andrei ad appostarmi sotto le abitazioni di quelli che scrivono e diffondono certi annunci per far loro gli scherzi al citofono, giusto per farvi capire quanto possano essere serie le mie intenzioni. Detto questo, andiamo al dunque. 


Lettera ad un curriculum sbagliato


Non hai avuto vita facile né lunga: sei un curriculum sbagliato, nato da poco e già destinato al macero. Non mi ero presa gran cura degli altri miei curriculum in passato, sono stata una genitrice sbadata. Qualche anno fa chi ti ha preceduto era un semplice foglio con su scritti nome, cognome, e che ero una studentessa. Qualche rigo sulle attitudini personali, senza prendermi troppo sul serio. Un bel giorno mi hanno chiesto di sostituire quel foglio con un cv in formato europeo, quello vituperato, quello terribilmente fuori luogo, quello che non rischiatevi a presentarvi con quello perché vi fanno subito fuori. E l'ho fatto. Con quello ho macinato parecchi chilometri, ho fatto alcuni colloqui (non tantissimi, sia mai), l'ho aggiornato periodicamente e l'ho tenuto buono pensando che in fondo potesse andare bene così. Non saprei dire se a causa di quel curriculum, della sua forma e non del suo contenuto intendo, sia stata esclusa senza pietà nel corso delle selezioni per un posto di lavoro. Ma tant'è: anche l'aspetto conta e quindi, tabula rasa. Dovevo pensare a qualcosa di nuovo, dovevo pensare a te. Da brava giornalista (sì, mi sto arbitrariamente attribuendo queste due qualifiche), mi è anche capitato di spiegare ciò che in realtà non sapevo, occupandomi dei cv creativi e di quanto fosse importante creare un documento assolutamente originale e fantasioso in modo da colpire l'attenzione. Ho iniziato a guardare certi curriculum fatti da altri, per prendere ispirazione. Tuttavia volevo realizzare qualcosa di unico, non necessariamente bellissimo, purché fosse diverso dagli altri. Ho impiegato alcuni giorni a crearti, a pensarti, a realizzarti con gli strumenti a mia disposizione. Poi, ti ho creato, ti ho letto e riletto, sistemato, sottoposto al vaglio di alcuni amici fidati. Poi ti ho letto altre settantatré volte circa, e riesaminato, e sistemato una virgola qui, un grassetto lì. Il risultato era soddisfacente? Non molto, ma rispetto al formato europeo di passi avanti ne abbiamo fatti. E quindi, ti ho portato in copisteria per farti stampare. 
Vado sempre alla stessa copisteria: è vicino casa, chi ci lavora è gentile e mi fa sempre uno sconticino, addirittura si mette a fare due chiacchiere disinteressate. Forse faccio anche un po' tenerezza perché sono già andata un sei-sette volte a stampare il cv. 

«Signorina, ma è sicura di voler stampare a colori? Guardi che costa di più, eh! Lo dico contro il mio interesse, eh!»
«Guardi, spendo qualche euro oggi per guadagnarne un migliaio domani» - dico anch'io contro il mio interesse, eh. 
«Va beh. Ma perché non ha messo la foto? Peccato». 
Il signore delle fotocopie manda il file in stampa, lo pinza con cura, lo mette con delicatezza dentro una busta da plico, mi guarda un po' dubbioso. «Dai, facciamo quattro euro, sconto studenti. E tanta buona fortuna, signorina, eh!».

Ma cosa vuoi che siano quattro euro per due copie di te, del mio piccolo, fantastico curriculum nuovo di zecca con il suo design minimal ed elegante, con le rifiniture indaco scuro, con tutte le informazioni al suo posto? Non sei perfetto, ma ti voglio comunque bene. Con te, farò certamente belle figura. Altro che il formato europeo. Non ti terrò dentro un cassetto: voglio subito sfoggiarti, mandarti in giro, farti vedere come si sta al mondo. Così, con la scusa di dover cercare lavoro - perché sì, sto cercando lavoro, lo dico sebbene mi sia stato consigliato di fingermi occupata anche se non è vero perché «se vedono che siete disoccupati non vi prendono» (una scena fantastica, provate ad immaginare il selezionatore che guarda il cv e taglia via tutti quei poveri stronzi che hanno scritto di essere in cerca di occupazione, disponibili da subito, da prima di subito, se esistesse la macchina del tempo disponibili anche tre mesi fa, a tempo pieno a tempo vuoto a tempo perso, tutto il dì, a qualsiasi ora del giorno e della notte, se li chiami si materializzano all'istante - ed hanno sbagliato tutto. Immaginateveli! Fatto? Bravi. Ora immaginatevi il coro di bestemmie che fioccano all'unisono. Ve l'avevo detto, che è una bella immagine) - dicevo, con la scusa di cercare lavoro, inizio a mandare te, piccolo curriculum senza Cepu, a qualche fortunatissimo selezionatore. Che aprirà il file e penserà che è un bel curriculum, almeno diverso dagli altri! Ah, che bellezza. Insomma, ti lascio spiccare il volo per la prima volta, un po' commossa. Penso che questa sia la volta buona, che le risposte arriveranno. 

Piccolo, dolce curriculum con gli inserti indaco, non so se avrò il coraggio di spiegarti tutto con calma. Per me eri perfetto e lo eri anche per (quasi) tutti quelli che l'hanno visionato, nonostante piccole imperfezioni, niente di grave. Il punto è che io sono, a volte, un po' distratta. Tengo a specificare: sono distratta a livello macro. Sono la classica persona che nota i dettagli più piccoli, poi però si fa sfuggire cose enormi, importanti. Tipo che noto la fibbia delle scarpe di una persona, salvo omettere che questa persona sta levitando, rapita dagli alieni.

È sempre stato così, spero tu possa capire. Quindi come dirti che ho dimenticato di inserire la mia maledettissima data di nascita all'atto della tua compilazione? Ecco, te l'ho detto. Non so come sia stato possibile: probabilmente sei sparito per un brutto sporco e losco affare di formattazione. Il mio cervello, che già funziona così così, ha saltato a piè pari il problema durante i controlli meticolosi, ed ecco fatto il patatrac. Oh, è successo, mea culpa. Almeno adesso posso spiegarmi così le risposte che non arrivano. Arriverà presto un fratellino, devo dirtelo. Sarà simile a te, ma avrà la decenza di essere più completo. Arriverà assieme ad una nidiata di curriculum alternativi, creativi, volitivi, impegnativi. Ma tu mi hai insegnato qualcosa di importante e prezioso, un monito che di cui d'ora in poi farò per sempre tesoro:

«STAI PIÙ ATTENTA, RINCOGLIONITA!»




lunedì 12 marzo 2012

Oh I, oh, I'm still alive

Hey, sono ancora viva. Ma ora ho un nuovo blog, ho un doppio blow job se vogliamo, dedicato al non lavoro e agli annunci merdosi. Quindi non mi sono dedicata con assiduità a questo, spero di riparare presto. Intanto mi spammo da sola e ve lo segnalo: date un'occhiata se vi va. http://blog.ctzen.it/lefaremosapere/

mercoledì 1 febbraio 2012

Tutto il mondo è paese, più o meno.

Elenco di sottotitoli per questo post (non so sceglierne uno):

  • Dalla Svezia con stupore.
  • La meritocrazia esiste, ma nessuno ci crede più, tipo la magia del Natale.
  • Dai, dai che ce la fai!
Circa dieci giorni fa (sono stata negligente, mea culpa: ma ho ottime ragioni) è arrivata una mail più che gradita. Una testimonianza, una di quelle coi fiocchi. Mi sono arrivate un bel po' di mail, ogni volta rimango stupita, ogni volta mi emoziono. "Qualcuno mi legge, qualcuno apprezza, chebbbello!". I complimenti si sprecano. Il 30% delle volte però si tratta di qualche azienda che vorrebbe farsi pubblicità attraverso il mio blog. NON VE NE FACCIO PUBBLICITÀ, CAPITO? Dicevamo.

A scrivere una bella mail che ha suscitato in me una grande curiosità (ed alcune riflessioni) è Sascha, una ragazza bella, brava ed intraprendente, che ha studiato e girato un bel po' prima di trovare "la sua dimensione". Gestisce un bel blog, "Coffee and heels", che seguo con piacere pur non essendo esattamente un'esperta o appassionata di moda. È nata in Russia e cresciuta in Svezia, a Stoccolma. Si è spostata più volte, prima a Los Angeles per un breve periodo, poi di nuovo in Svezia e poi, toh, è venuta qui in Italia. Ha studiato moda a Firenze ed è anche stata a Milano (tappa obbligata nella vita di chiunque, a quanto pare). Insomma, si è data da fare ed il suo impegno, il suo talento, sono stati ricompensati: adesso lavora! Ma come mi ha scritto lei stessa, al momento lavora come "web editor in una multinazionale di e-commerce di moda. Peró la strada per arrivarci é stata tutt'altro che facile!". Se l'unico scoglio fosse la facilità, forse sarebbe un mondo migliore. Ad ogni modo, ecco a voi le due simpatiche disavventure accorse a Sascha (in Italia) e alcune domande e risposte sul sistema lavorativo svedese. Stupore annesso e connesso.

Storia sfortunata nr 1

"Avevo trovato un annuncio per "Responsabile Showroom" e ho pensato: veramente io voglio scrivere, ma nel frattempo, uno showroom non é male. Tanto per non morire di fame. E farmi magari un po' di contatti.
Arrivo, é uno showroom di arredamento, molto bello, in centro a Milano. Mi accoglie una dei proprietari. Le solite domande, studi, lingue, esperienze.Mi chiede se io ho delle domande. Io chiedo, naturalmente, (tra l'altro) del tipo di contratto e della retribuzione.
La risposta: dopo i primi tre mesi, da 1000 a 1200 euro mensili (...quindi...? sono 1000 o 1200? E soprattutto da cosa dipende?), peró i primi tre mesi sono "stage con rimborso spese".
Insisto per sapere a quanto ammonta il rimborso spese. Risposta: "sui trecento, trecentocinquanta euro, beh, sulla carta, il resto te lo diamo in mano "cosí", mica siamo cattivi, noi." Ah.
E come mai si inizia con tre mesi di stage? Risposta: "é una prova, dobbiamo sapere se la persona va bene". Mi pento di non aver chiesto se avessero mai sentito parlare dei contratti a tempo determinato (retribuiti), la modalitá di prova che ho visto utilizzare in tutti i miei precedenti posti di lavoro, in Italia e all'estero...forse ho dimenticato di dire che la figura che cercavano era una responsabile a tutti gli effetti, una persona che gestisse da sola, in totale autonomia, tutto lo showroom. In stage. A "trecento, trecentocinquanta" euro al mese. Beh, sulla carta, naturalmente. Mica siamo cattivi".

Storia sfortunata nr 2

"Trovo, di nuovo, un annuncio per "showroom moda." Mi presento alla sede del colloquio, é un'agenzia, il che giá non é un buon segno (mi dite che motivo hanno di esistere, le agenzie di lavoro?). La selezionatrice porta le infradito e parla con la velocitá della luce, sembra essersi appena fatta tre-quattro strisce di coca. Squadra il mio CV e mi fa: "beh peró il tuo curriculum, devo dire, é un po' troppo "moda".
Viene fuori la veritá: il colloquio é per il ruolo di COMMESSA PER UN NOTO OPERATORE TELEFONICO.
Altro che showroom moda.
Mentre io rimango lí incredula, la selezionatrice va avanti a istruirmi su come comportarmi all'incontro con l'azienda: dovrei far davvero credere che sono del tutto intenzionata ad abbandonare il mondo della moda. Io, che mi sono presentata al colloquio solo perché l'annuncio si chiamava "responsabile vendite showroom moda.".

A questo punto ho chiesto alla selezionatrice se magari c'é qualcosa un po' piú idoneo al mio profilo professionale. Ha risposto che veramente qualcosa ce l'avrebbero: uno stage in uno showroom di moda, per una campagna vendita di due mesi. DUE MESI. Dice che inoltrerá il mio curriculum e "se tutto va a buon fine" dovrei incontrare l'azienda fra due settimane, giusto quando ho in programma il viaggio del mio compleanno - i miei unici cinque giorni di mare in tutta l'estate. Ho chiesto se si potesse anticipare o posticipare il colloquio, dato che ho giá prenotato un viaggio. La risposta é stata: "ah ma questo viaggio...non si puó cancellare?"
Quindi fammi capire. Io dovrei cancellare la mia unica settimana di vacanza, del mio compleanno, perdendo un sacco di soldi e lasciando i miei amici nella cacca, per la POSSIBILITÀ di fare, "se tutto va a buon fine", un colloquio per uno STAGE di due mesi (dopo di cui sono di nuovo disoccupata) per fare la commessa? Ho detto "le faró sapere", quando in realtá dovrei dire, "é giá tanto che non le tiro la mia scarpa in testa".

Mi dispiace solo che in questi casi, quando questi personaggi mi capitano di fronte, sono talmente scioccata che rimango senza parole, e non riesco mai a rispondere come dovrei!

Però a questo punto mi sono un po' incuriosita. Quindi chiedo a Sascha se posso essere indiscreta a rivolgerle alcune domande:

D: Potresti accennare una sorta di "parallelo" tra il sistema italiano e quello svedese, relativamente alla ricerca di lavoro? Anche lì avete a che fare con gli eterni stage assassini, con i fantomatici periodi di prova non retribuiti, con le raccomandazioni anche per fare la commessa e compagnia bella?

Il sistema svedese, direi, non é malissimo: gli stage non retribuiti esistono, ma si puó percepire un contributo statale (minimo eh, non é come avere uno stipendio) tipo la disoccupazione, mentre lo fai. Tanti posti peró non ammettono stagisti se non provenienti da un'universitá (cioé uno stage obbligatorio per il diploma). Esiste un minimo sindacale di stipendio (se non sbaglio completamente sono 1700 euro lordi) e secondo la mia esperienza (questo NON é un dato statistico) un laureato prende in media sui 2000 euro. Io guadagnavo 2200 euro netti al mese per un lavoro ORRIBILE dove non tornerei neanche sotto tortura. Non esiste il "lavoro non retribuito" e collaborazioni gratuite: la gente non le accetterebbe. Io da giornalista freelance con la mia partita iva fatturavo sui 200 euro lordi a pagina. Peró praticamente la metá di tutto ció va in tasse, che lí sono davvero alte.

Altre assurditá che mi é capitato di vedere qui in Italia (stage per fare la commessa, posizioni da responsabili non pagate, stagisti che fanno la formazione ad altri stagisti) immagino che esistano ma personalmente non ne ho mai visto né sentito e soppongo che siano davvero rare.

Peró una cosa é certa: trovare un lavoro in Svezia é veramente UN'IMPRESA. È lunga, durissima e ogni tanto sembra di sbattere la testa contro il muro. Regna insuperato il sistema di "abbiamo bisogno di assumere una persona: chiamiamo un nostro amico/parente". TUTTO si fa tramite conoscenze: durante il mio stage presso una nota rivista internazionale di moda, ho chiesto alla fashion editor come fare ad avere un lavoro come il suo. Mi ha risposto con un elenco delle discoteche che dovrei iniziare a frequentare "perché lí fai amicizia con le persone che ti possono aiutare." No comment.


Hai capito, la terra di "mamma Ikea"? Certo, mi vien da pensare che certe cadute di stile avvengano più facilmente nel mondo della moda, che è un po' stronzo di suo, perché la moda è selettiva, perché voi non valete proprio nulla. Non sia mai che noi italiani si debba rinunciare all'idea che andare all'estero sia l'unica soluzione.


PS: Sono stata assente per un po' e ho un bel po' di post arretrati da sottoporre alla vostra graziosa attenzione. E anche alcune (si spera) succulente novità. Dovrei solo attivare i neuroni, impresa invero difficile. Stay tuned!

venerdì 20 gennaio 2012

Ma ve l'ha detto il medico?

Premessa: questo blog è (e vorrebbe essere) aperto alle testimonianze dei lettori. Testimonianze da verificare o da prendere in quanto tali (racconto da parte di un singolo), ma che purtroppo stentano ad arrivare. Molti si limitano a dire "eeeh sapessi quante ne sono successe a me", però poi non se la sentono di raccontare il tutto (anche anonimamente, chiaro) in modo che io possa pubblicarlo qui. Mi rendo conto che questo blog non è "Le Iene" o "Striscia la Notizia" (e ne sono felice) e mi rendo anche conto del fatto che sia difficile parlare di sé ed esporsi. Per questo motivo sono costretta a parlare di me e delle mie esperienze, per quanto non ami l'idea di far diventare questo blog un serbatoio dei miei piagnistei: per quello ci sono già il bagno del mio monolocale ed il mio account di facebook. Ma comunque.

Oggi scriverò una riflessione ottusa e provocatoria, conforme alla mia persona. Eviterò di scendere nei dettagli per varie ragioni e perché in fondo, in questo contesto, non è importante conoscere un nome o vedere lo screen di un annuncio. E perché farò riferimento a due colloqui di lavoro che ho avuto negli scorsi giorni con persone (e modalità) molto diverse. In entrambi i casi, persone assolutamente sincere e trasparenti, quindi almeno per una volta, non posso parlare di annunci-truffa.

In un caso, ho rifiutato senza pensarci l'offerta di lavoro fatta, che consisteva in una collaborazione giornalistica che prevede un periodo di prova non retribuito di ben sei mesi. Circa 48 pezzi. Successivamente, articoli a 7€ lordi. Grazie tante, ma manco per il cazzo.
Nel secondo caso si trattava di un incontro conoscitivo e non ho davvero idea di come sia andato. Diciamo che mi crocifiggerei per i pollici pur di ricevere un riscontro positivo fra qualche mese, una convocazione, qualcosa insomma. Nel corso di entrambi i colloqui, ho parlato di questo blog (la faccia delle persone quando dico il nome è qualcosa di indescrivibile: delizioso. Sono orgogliosa di me) e di come la penso sul lavorare aggratis. Ho avuto modo di confrontarmi con persone che si trovano anche dall'altra parte, pur avendo vissuto in prima persona lo stesso disagio che ho vissuto io. Insomma è come se, avendo subito un trauma, dovessero infliggerlo a loro volta. O non potessero farne a meno, costretti dalle circostanze.
Mi è stato spiegato che se le cose funzionano così nel mondo del giornalismo (ma il discorso può benissimo estendersi ad altri settori afflitti dalla carenza di risorse e dall'esubero di "manodopera" disponibile in cerca di collocazione) è perché non c'è mercato, non ci sono soldi. Non ci sono scappatoie. Le cose stanno così, i giornalisti sono troppi, i soldi a disposizione dei giornali pochi e dover spartire la torta in centodieci mila non aiuta.

Mi è venuta in mente, a questo punto, una frase che ho letto e mi è stata rivolta in più occasioni, da varie persone. Che mi ha fatta un po' incazzare, ma anche riflettere.

"Ma a voi, ve l'ha detto il medico che dovete fare i giornalisti? Magari gratis, rovinando la piazza ai colleghi? Siete troppi, andate a fare altro".

A me il medico ha detto solo che devo stare calma, sennò è ovvio che poi mi vengano i conati di vomito quando mi girano i coglioni. Ad ogni modo, farò mia questa frase e girerò la domanda agli editori e ai direttori dei grandi giornali (e non a quelli della piccola stampa indipendente, che sono un caso a parte e meriterebbero l'assunzione al cielo - essendo impensabile quella contrattuale) che non leggeranno mai questo post, lo so bene, ma chiederò lo stesso:

"Ma a voi, ve l'ha prescritto il medico di fondare o mantenere aperto un giornale senza soldi, cercando manovalanza a costo zero? Soldi non ce ne stanno: andate a fare altro".